Attraverso i futuri del mondo

Laura Bumbalova

Il titolo della 56 Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia data dal curatore Okwui Enwezor è All the word’s futures (Tutti i futuri del mondo), il titolo farebbe pensare che il filo conduttore dell’intero percorso sia il futuro o la proiezione di esso. Ma il curatore nigeriano/statunitense ammette di essersi ispirato all’Angelus Novus di Paul Klee interpretato così da Walter Benjamin nel suo Tesi di filosofia della storia: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta.”
Questo Angelo è l’angelo della storia, che sembra ricordarci che non c’è futuro senza passato.
In questa edizione della Biennale sono state messe in scena quindi lo stato delle cose. Al centro del quale c’è la politica e la storia del Capitalismo. Non è casuale che il cuore pulsante dell’esposizione sia Il Capitale di Marx, che viene letto dal vivo nel Arena, un nuovo spazio al Padiglione Centrale dei Giardini.
Il sottotitolo della 56 Biennale è Il Parlamento delle forme, forma intesa come forma di espressione. Infatti varie tecniche narrative vengono a formare questo spazio di voci, provenienti da tutte le parti del mondo. Voci di Stati piccoli o di popolazioni indigene che nonostante tutto sono sopravvissute alla colonizzazione europea, voci che hanno una loro identità culturale da preservare e raccontare, voci aperte all’ibridazione o meglio ancora alla creolizzazione.
Okwui Enwezor sviluppa in prima persona il suo tema nel Padiglione centrale dei Giardini e nelle Corderie all’Arsenale.

All’ingresso del Padiglione dei Giardini sono appesi dei teli neri e sulla facciata campeggiano dei tubi neon con la scritta Blues, Blood, Bruise (Tristezza, Sangue, Lividi) di Glenn Ligon, i quali ci anticipano parte delle sensazioni che percepiremo attraverso le opere.

Nella Sala ottagonale ci attende l’artista italiano Fabio Mauri (1926-2009). In mezzo a questa sala, dallo spazio coinvolgente, c’è una cesura, una barriera, fatta di tante vecchie valige, tutte chiuse tranne che una. Lo sguardo scruta questi pezzi di storia appartenuti a qualcuno. La valigia è solitamente un mezzo per portare con se gli oggetti che ci appartengono in viaggio, ma l’unica valigia aperta di questo muro, il Muro occidentale o del pianto, è tragicamente vuota con dentro l’immagine di una ragazza nuda dai capelli ricci, tanto ricci, con sul petto una stella di Davide.
Si tratta di un richiamo all’Olocausto. Fabio Mauri non era ebreo, ma come ciascuno di noi, sentiva l’esigenza di prendere le distanze da quell’orrore. Non a caso sui muri, quadri dello stesso con la parola The end, Fine e una foto, velata da un drappo trasparente, in cui Fabio Mauri è rappresentato con il suo amico Pier Paolo Pasolini alle prove di Cos’è il fascismo.
Davanti al Muro del pianto poi c’è la sua macchina Macchina per fissare gli acquerelli, volta verso la cupola del Padiglione affrescata nel 1909 da Galileo Chini.

Procedendo attraverso un piccolo corridoio ci si scontra con L’uomo che tossisce dell’artista francese Christian Boltanski (1944). Questo video del 1969, vede un uomo i cui colpi di tosse si diffondono anche nello spazio e sembrano infiniti. La sua tosse è anche un vomito, un emorragia. Lo spettatore che lo vede per la prima volta fugge avanti, ma chi lo conosce si ferma e guarda il filmato fino alla fine. Anche perché quest’opera è completamente diversa da quella più recente che l’autore propone alle Corderie dell’Arsenale, Animitas. L’autore stesso in un’intervista ammette che nel 1969 era giovane e in lui vi era uno spirito diverso, di l’interesse per l’orrore, mentre al tramonto della vita il tono è più calmo e di sintesi.
Animitas in Cile sono i luoghi spontanei, in cui le persone accendono candele e portano fiori, per commemorare. E le 850 campanelline giapponesi del film di Boltanski, disposte su dei bastoncini nel deserto di Atacama, si muovono con il vento. Questo deserto secondo Boltanski è il posto in cui si vedono meglio di notte le stelle e quindi colloca le campanelline in modo da riprodurre la disposizione astrale del 6 settembre 1944, cioè della notte della sua nascita.
Il deserto di Atacama è anche il luogo che conserva parte della storia, qui Pinochet abbandonava i dissidenti al loro destino, un cimitero a cielo aperto dove le anime continuano a mormorare.

Non ci si puo’ non soffermare anche allo spazio proposto da Neem Mohaiemen (1969), che con il suo Last Men in Dhaka (2015) e le sue opere attraversa la figura di Abu Yusuf un giovane militare ucciso a Dhaka negli anni 70, solo perché era attivista di sinistra. Storia messa in parallelo all’esperienza del giornalista danese Peter Custers in carcere a Bangladeshi perché stava conducendo un’inchiesta sulle sorti dei contadini poveri del Bangladesh. Mohaiemen sembra narrare una storia senza fine che si ripete nel tempo, quella della limitazione della libertà di espressione.

Poco dopo segue Following the Light of the Sun, I only discovered the ground (2012-2014) dell’artista Runo Lagomarsino. Il titolo è espressamente legato alle parole di Cristoforo Colombo “following the light of the sun, we left the old world”. Una proiezione di diapositive mostra materiali recuperati dall’archivio di Zurab Tsereteli (1934), artista russo – georgiano incaricato di realizzare la scultura più alta del mondo in occasione dei 500 anniversario del viaggio di Cristoforo Colombo. La statua non è stata mai assemblata negli Stati Uniti d’America per via di continui rifiuti delle istituzioni americane, dopo vent’anni hanno trovato una collocazione definitiva a Porto Rico, dove è in corso l’assemblaggio. Runo Lagomarsino fa una provocazione, l’inno russo di sottofondo alle diapositive e un francobollo sempre russo sul quale è rappresentata in piccolo l’opera progettata da Tsereteli.
Di Lagomarsino anche la composizione con le date della scoperta dell’America e la serie di dipinti La muralla azul (Il muro blu), un muro blu che rappresenta il mare con degli spazi chiari, il riflesso del sole o il futuro. La tecnica usata è interessantissima e piena di significato, l’artista bagna la carta nell’acqua del Mar Mediterraneo e poi la espone al sole.

Non lascia indifferente, anzi emoziona, l’opera dell’artista senegalese Fatou Kandé Senghor dal titolo Giving birth (Il parto). Un video che narra dell’arte di fare ceramica, in cui protagonista è un donna, che ha appreso la tecnica dalla sua famiglia, che di generazione in generazione produce utensili della vita quotidiana, ma dalle mani della ceramista nascono figure antropomorfe, dei totem, che mostrano come l’artista possa creare cose di cui non conosce nemmeno lui le origini.
In un certo senso Huma Bhaha pakistana (1962), con le sue statue With blows (Con il soffio), With word (Con le parole), Mechanic, Against what? Against whom? (Contro cosa? Contro chi?) sembra proporre lo stesso concetto, le statue come manufatti del passato.

Spiccano le opere di Robert Smithson (1938-1973). L’artista Smithson è un pioniere dell’arte della natura, noto per i suoi earthwork. In tutta la sua produzione si respira la delusione rispetto alla società del secondo dopoguerra, in cui regna la decadenza, in cui non c’è più progresso, ma solo una tendenza verso una totale frammentazione. Sul muro spicca il suo progetto per un giardino galleggiante o Floating island a Manhattan, così come il filmato Swamp (Palude) del 1971. La palude è un’opera realizzata da lui in collaborazione con la moglie Nancy Holt (1938), in cui oltre al tema della natura, si affronta anche quello di percezione e di processo. La Holt è colei che cammina durante le riprese attraverso i canneti di una palude, guidata solo da ciò che puo’ vedere attraverso l’obiettivo e dalle istruzioni verbali del marito. Di forte impatto è anche Dead tree, un albero morto, il cui cadavere è disteso a terra. Quest’opera del 1969, è stata riproposta per la Biennale secondo le indicazioni date dal maestro riguardo a misura e composizione. Si tratta di un albero ai cui rami ci sono i germogli, un albero sradicato, di cui la completezza si coglie attraverso degli specchi disposti lungo tutta la sua altezza.
Nella Biennale di quest’anno è molto forte questo filone naturalista. Altri interessanti esempi oltre Smithson sono la giovane artista cilena Elena Damiani con le sue Rude rocks, nelle quali fa intendere il suo interesse per la terra, per i minerali che l’uomo ha l’illusione di contenere in una forma. Così come Herman de Vries con To be all ways to be del padiglione Olandese. Questo anziano artista dalla lunga barba bianca, è vissuto di natura, di questo parla la sua opera Flora incorporata, con i nomi di tutte le piante con cui è venuto in contatto nel corso della sua opera artistica, così come il tappeto di rose damascene dal profumo che colpisce l’olfatto o i fogli con i colori della terra che ha portato via durante i suoi viaggi da tutte le parti del mondo.
Non bisogna dimenticare anche il padiglione francese con Celeste Boursier – Mougenot, Revolutions e i suoi alberi mobili. Come il padiglione australiano Wrong way time, in cui Fiona Hall sottolinea che tutto ciò che è legato alla politica globale è destinato ad essere distrutto e che la soluzione è solo un ritorno alla natura, fortemente segnato dall’artista nelle banconote unite, coperte da una foglia secca. Mettere la natura al primo posto, quindi, è una delle risposte date dal parlamento delle forme della Biennale, metterla al primo posto per astrarsi da questo presente pieno di contraddizioni, di sofferenza e di ingiustizia economica e sociale. E il culmine di questo filone di pensiero sembra essere forse involontariamente l’installazione dell’artista svizzero Thomas Hirschhorm, Roof off (Soffitto caduto), un soffitto che porta con se tutto, un tetto fatto di scotch e di innumerevoli fogli scritti in greco che sembra rinascere come un albero.
Ma c’è anche una via di mezzo, un forte riferimento ecologico nelle gigantesche riproduzioni di fiori e i plastici di esterni con piante monumentali dell’artista tedesca Isa Genzken.

All’interno della Biennale ci sono anche collezionisti e archeologi del nostro tempo. Mi riferisco all’artista rumeno Victor Man, in cui non mancano le citazioni delle opere d’arte del passato; o il cubano Ricardo Brey, il quale nelle sue scatole raccoglie tutti i mirabilia, perché spinto da un forte desiderio di conoscenza; oppure, ancora Newell Harry che ha portato dai suoi viaggi a Vanuatu, un’isola dell’Oceano Pacifico i regali che gli abitanti gli hanno fatto, accompagnandoli da fotografie che descrivono la loro vita quotidiana. Certo ci sono anche gli archeologi che raccolgono e in maniera classificatoria mostrano gli oggetti presentando uno degli aspetti più negativi della società globalizzata – l’accumulo delle cose. Da vedere in tal senso il padiglione di Israele (Archaeology of the Present) e anche per certi versi quello Canadese (Canadissimo), in quest’ultimo però c’è anche un interesse al riciclo, alla trasformazione di questi oggetti – scarto della società consumista, in oggetti d’arte, come le scatole di latta per esempio, appositamente colorate e aperte per contenere i pennelli.
Un annuncio catastrofico del consumismo, invece, viene dato da Wangelichi Mutu, in un filmato fiabesco (The end of carrying all) in cui una donna, quella stessa donna che in altre sue opere esposte contiene tutto il mondo in se (She’s got the whole world in her) o che coglie il frutto del peccato come Eva (Forbbiden fruit picker). Quella stessa donna cammina lungo un paesaggio, in cui il grande albero di baobab presente all’inizio del suo cammino rimane fermo immutato, mentre lei carica sulle sue spalle, nel suo percorso, oggetti, uno dietro l’altro. Sempre più pesanti diventano le sue spalle e alla fine di questa strada lei crolla e assieme a tutti gli oggetti si tramuta in un vulcano che erutta e la cui lava si disperde.

Il fantasma di Marx e del suo Il Capitale aleggia in più opere in maniera diversa nella Biennale di quest’anno. Nel film proiettato a tre canali News from ideological antiquity – Marx – Eisenstein – Capital (Notizie dall’antichità ideologica: Marx – Eisenstein – il Capitale), il famoso regista tedesco Alexandr Kluge prende in mano il progetto di una vita del suo regista preferito Eisenstein, quello di fare un film su Il Capitale di Karl Marx e lo realizza in maniera magistrale. Il Capitale di Marx infondo, non è un libro superato, è l’ultimo libro classico dell’economia politica e l’unico libro completo sul Capitalismo.
Il nome di Marx e della sua opera si ritrova anche nella video intervista su due schermi di Isaac Julien, Kapital, in cui l’artista/docente universitario chiede all’accademico Marxista David Harvey, autore del libro Enigma del Capitale, il perché Il Capitale è così difficile da descrivere.
Il situazionismo è uno degli argomenti presenti tra gli artisti sia ai Giardini che all’Arsenale. Ed è rappresentato da una retrospettiva del situazionista italiano Gianfranco Sanguinetti curata da Isaac Julien. Questo movimento politico e artistico che nasce a metà del 900 in Europa ed è radicato nel marxismo affascina anche paesi lontani, per esempio Vincent Meesen nel padiglione belga nell’opera centrale A Kinshasa, esplora la partecipazione degli intellettuali conongolesi a questo movimento rivoluzionario.

La tensione sociale dovuta a guerre, crisi economiche è anche un tema affrontato da molti artisti in questa Biennale. Interessante in tal senso il progetto delle dimostrazioni tratte dal Herald Tribune dell’artista argentino Rirkrit Tiravanija. Si tratta di 100 disegni commissionati dall’artista a 100 giovani artisti tailandesi, che avrebbero dovuto trasformare in disegni le foto del quotidiano Herald Tribune. In quest’opera si puo’ anche leggere una sorta di nostalgia per il passato, per gli anni 60/70 del secolo scorso.
Le opere del artista giapponese Tetsuya Ispida, morto a soli 31 anni travolto da un treno ad un passaggio a livello a Tokyo, sembrano riflettere, invece, lo stato d’animo della società contemporanea giapponese sconvolta dalla crisi economica; i suoi personaggi giovani sembrano soffrire in silenzio, i loro volti inespressivi, mostrano un contesto grigio ed opprimente.
Allo stesso tempo il perenne disagio socio – economico, visto però come qualcosa di insopportabile, di ormai troppo limitativo, lo si puo’ percepire in maniera netta in So much that it doesn’t fit here, nel padiglione del Brasile. Qui Antonio Manuel uno degli artisti in mostra nel padiglione, sfonda i muri per far passare lo spettatore, un atto di protesta forte e definito.

La povertà e la miseria è mostrata nelle facce dei protagonisti delle fotografie di Walker Evans (1903-1975) dal titolo Let us now praise famous men, il quale per conto della rivista “Fortune” era stato incaricato negli anni Trenta di vivere con tre famiglie di mezzadri in Alabama e di documentarne l’esperienza. Quello era un periodo duro per l’economia americana e i mezzadri erano quelli che prendevano in affitto appezzamenti di terra per coltivare il cotone. Spesso però questi contadini guadagnavano poco o nulla e addirittura si indebitavano. Il messaggio che si vuol dare nel contesto della Biennale è che si tratta di un tema ancora attuale in alcune parti del mondo. Non da meno è l’ambiente tutto dedicato all’artista Jeremy Deller, in cui uno striscione accoglie lo spettatore con la frase Hello today you have day off (Salve oggi hai una giornata libera), lo spettatore sembra quasi contento di quest’annuncio, ma in realtà il suo significato è legato al lavoro e l’ingiustizia. Per chi ha un lavoro precario il rimanere a casa vuole dire rimanere senza soldi. Il tema è arricchito dalla presenza di fotografie che fotografano i lavoratori sfruttati di metà Ottocento di William Clayton, Iron Workers. Una mano finta con una telecamera racconta che la stessa storia si ripete in certi contesti lavorativi, dove il controllo sui lavorati rasenta la legalità e il rispetto dei diritti anche oggi ed un juke box ricorda i rumori di questi contesti.
L’emancipazione femminile è presente e passa dal video A morning breeze di Petra Bauer, in cui protagonisti sono il primo movimento socialista femminile svedese e diversi club socialisti in Svezia, i quali contribuirono alla conquista del diritto di voto femminile nel 1919. L’emancipazione attraversa anche la protesta e trova la sua apoteosi nel padiglione venezuelano I give you my word, con le donne/madri incappucciate che allattano.

Il colonialismo ha portato i Paesi colonizzatori ad un approccio eurocentrico rispetto alle ex colonie, e il padiglione del Belgio, si pone il problema della necessità di dare dignità alla cultura congolese, che a lungo il Belgio aveva sottomesso e quindi di ammettere l’ibridazione culturale, per poter andare avanti con la storia e arrivare ad ottenere un patrimonio condiviso. Interessante anche l’incontro di culture nell’esperimento polacco, in cui C.T. Jasper e Joanna Malinowska hanno deciso di ambientare l’opera polacca dal titolo Halka dall’altro lato dell’Atlantico, ad Haiti. Il riadattamento è avvenuto a Cazale, in un villaggio abitato dai discendenti dei soldati polacchi che hanno combattuto per l’indipendenza haitiana.

L’ingiustizia razziale è presente nel film dell’artista britannico John Akomfrah, Vertigo sea, che mostra su tre schermi diversi immagini vertiginose e tragiche, che spaziano dagli abissi, le profondità dell’oceano, al commercio degli schiavi neri, alla caccia alle balene. Tutte sembrano guidate da una stessa forza motrice, che nello spettatore lascia la tragica domanda del perché tutto questo.
Questa ingiustizia è ricordata nelle opere Come out dell’americano Glen Ligon. Questi suoi quadri vedono ispirazione da Come out (1966) di Steve Reich, che a sua volta a ricreato nel suo componimento musicale i fatti accaduti a Haarlem (Manhattan) nel 1864, quando sei giovani neri furono ingiustamente accusati di aver ucciso un negoziante. E questa frase “come out” è stata tratta dall’interrogatorio di Daniel Hamm uno dei ragazzi che dice: “I had to, like, open the bruise up, and let some of the bruise blood come out to show them”.
L’interesse per il nero lo vediamo in maniera diversa in Kerry James Marshall, Terry Adkins e Marlene Dumas. Marshall è presente nella Biennale con i suoi ritratti di neri, i suoi personaggi hanno la pelle nerissima, proprio per enfatizzarli. Nelle sue opere i neri che nell’arte europea del passato erano dei personaggi secondari, rispetto al personaggio principale bianco qui vengono ad assumere una loro dignità.
Adkins (1953- 2014) per esempio nelle sue opere scultoreo – musicali si interessa del tema del nero. Nella serie Darkwater record fa riferimento ai lati poco noti della vita dello scrittore afro – americano e attivista per i diritti civili W.E.B. De Bois e il suo celebre discorso Il Socialismo e il negro americano (1960), mentre in Black Beethoven (2004) tratta degli antenati neri del compositore.
E la pittrice Marlene Dumas con Skulls (Teschi) cerca di dire che siamo tutti uguali, “non importa da quale mondo veniamo”.

La guerra è uno dei protagonisti di questo presente complicato. Molto forti le immagini di Abu Bakarr Mansaray, perché espressione della sua esperienza personale, lui disegna durante la guerra in Sierra Leone nel 1997 e questi disegni sono veramente carichi per la loro immediatezza, poi nel 1998 arriva in Europa come rifugiato di guerra. I suoi disegni europei sempre legati al tema delle guerre sono però già più sofisticati, il riferimento è a Nuclear telephone discovered in Hell  (2003) e altri.
Estremamente realistico il Cannone semovente (1965) di Pino Pascali o i troni fatti da resti di armi di Roncalo Mabunda.
Il filmato The bell di Hiwa K. racconta di una campana fusa dal metallo di residui bellici provenienti dal Kurdistan e dall’Iraq, simbolo di speranza per un futuro migliore.
Mentre nel padiglione dell’ex Yugoslavia, l’artista serbo Ivan Grubanov “brucia” con il colore le bandiere delle entità nazionali che non esistono (United Dead Nations).
Nelle strade di Kharkov in Ucraina Mykola Ridnyi, registra delle immagini tranquille, ma solo all’apparenza, nello sfondo le voci della guerra civile ucraina.

I video dalla narrazione fiabesca e dallo stile fresco e naturale dell’artista argentina Mika Rottemberg sono due, uno ai Giardini, nel Padiglione centrale e l’altro alle Corderie dell’Arsenale. Il primo dal titolo Time and half, con una donna dai lunghi capelli e lunghe unghie che batte sul tavolo e fa muovere le cose e NoNoknows in cui attorno alla produzione delle perle, si snoda un mondo fiabesco fatto da persone che stanno sotto e persone che stanno sopra, di persone che faticano e di persone che pigramente annusano, starnutiscono e riempiono la stanza di cibo.
Anche il cinese Qui Zhije nel suo Jing Ling chronicle theater project, usa un linguaggio narrativo simbolico. Incuriosiscono il suo Powerful ministar, che è una camicia da Mao con candeliere sopra, che puoi spingere, ma non cade mai, la sua Macchina della storia, che funziona per via dell’intreccio di strisce di giornale e capelli umani.
Qui Zhije propone in questo suo progetto anche un’interessante visione circolare della storia – quello che è successo in passato puo’ accadere nuovamente in futuro.
Chiharu Shiota, nel Padiglione Giapponese ai Giardini prende come simbolo le chiavi- The key in the hand. Una foto mostra le chiavi nelle mani di una bambina. Le chiavi sono protagoniste anche in un grande spazio riempito di fili rossi. Si tratta di 800 chiavi donate da persone provenienti da più parti del mondo, legate fra loro come in un enorme rete rossa. La chiave, secondo l’artista, oltre ad essere la custode delle cose che ci stanno più a cuore, è la detentrice dei ricordi.

Ci sono anche opere che portano con se dei messaggi personali, che l’artista pensa possano essere utili a tutti. Per esempio Ashes (2002-2010) di Steve McQueen un filmato in cui il regista narra una storia vera, quella di un giovane pescatore delle isole grenadine che McQueen conobbe nel 2002 durante le riprese di un suo film. Nel 2010 quando tornò nell’isola venne a sapere che pochi mesi dopo la sua partenza, il giovane pescatore era stato barbaramente ucciso perché aveva trovato sulla spiaggia un nascondiglio di droga. Decide quindi di fargli costruire una tomba e di montare un film toccante sulla tragica sorte di questo giovane pescatore bellissimo che aveva tutta la vita d’avanti a se.
Il messaggio dell’artista francese Lili Reynaud Dewar, invece, è che bisogna preservare se stessi, per preservare gli altri, e attraverso il suo Epidemic (Small bad blood opera) lei affronta il tema dell’AIDS che l’aveva coinvolta durante l’adolescenza.

Un tema non meno rilevante di questa esposizione è quello dell’identità.
A questo tema è dedicato tutto il padiglione della Spagna (The subjects), in cui abbiamo, l’identità destrutturata proposta nelle opere di Pepo Salazar, L’identità reale e quella apparente, attraverso il modello di Salvador Dalì, artista che ben ha saputo costruirsi come figura mediatica, giocando sul concetto di realtà e verosimiglianza. Francesco Ruiz con le sue edicole, il quale mostra che i giornali e le riviste sono dei mezzi molto forti, non meno incisivi della televisione e di internet. Mentre il filmato di Helen Cabello e Ana Carceller è una performance girata all’interno del padiglione, in qui si tratta il tema del genere. I quattro personaggi parlano dei gender e della situazione attuale in Europa, così come della possibilità e dell’impossibilità di essere al di fuori della norma.
Un’identità provocatoria, se pur in modo diverso, è presentata dall’artista tedesco Georg Beselitz, nei suoi autoritratti nudi e rovesciati di testa in giù, così come dalla trasgressiva, Sarah Lucas a cui è stato affidato l’intero padiglione della Gran Bretagna.
Passando dal non ben chiaro e contraddittorio concetto di Identità sostenibili di Szilàrd Cseke, nel padiglione Ungherese, si approda alle identità collettive e nazionali in Apotheosis di Jiri David (Padiglione Repubblica Ceca) e del Codice Italia curato da Vincenzo Trione (Padiglione Italia).

E per concludere, nonostante le premesse in questa Biennale si parla anche di futuro.
Per la Cina in Other Future il futuro è un insieme di cose, che comprendono l’ambiente, il divino e la memoria storica.
Per la Corea di Moon Kyungwon e Jeon Joonho in The ways of folding space and flying, nel futuro si arriva direttamente saltando il presente. Infatti l’ambientazione è in un laboratorio scientifico del futuro, in cui c’è solo quello che è stato e quello che sarà.
C’è come abbiamo visto chi vede il futuro nel ritorno alla natura, ma c’è anche come gli artisti egiziani di Can you see? (Padiglione egiziano) che lo vedono nella pace, la pace dell’anima, la pace del corpo, la pace eterna e il riferimento chiaro anche da un punto di vista performativo e a Jalal ad_Din Muhammad Rumi e ai suoi versi: “Al di là del bene e del male esiste uno spazio/ti incontrerò li/quando lo spirito giace su questo tappeto erboso/ci sarà molto di cui parlare”.
Non è casuale, però, che tra tutti gli artisti presenti alla Biennale Okwui Enwezor abbia scelto di premiare l’americana Adrian Piper, la quale si presenta con delle fotografie di persone rappresentate nel loro vissuto quotidiano con i volti cancellati che contengono la scritta Everything will be taken away, così come con le lavagne con la stessa scritta in gesso. Tutto verrà portato via, fa pensare allo spettatore che non c’è via di uscita dal presente. Ma Piper questa via di uscita la propone con la performance premiata The probabile trust registry, in cui viene simulato un ambiente aziendale, nel quale i visitatori possono firmare un documento in cui promettono responsabilità morale verso se stessi e gli altri. Questa secondo lei la chiave verso il futuro, firmare un contratto con se e con gli altri, rispettando così come è scritto sui muri di questo spazio le regole: “I will always mean what I say” , “I will always do what I say I’m going to do”…

*Per chi non avesse visto la Biennale, o chi la volesse ripercorrere lo puo’ fare anche online su http://www.labiennale.org/it/arte/esposizione2015-online/

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